In questa pagina:

 

* Devo proteggere mia figlia: una bambina con paure generalizzate

* L'ho fatto bene mamma?: una bambina con disturbo ossessivo compulsivo

* Il magico numero quattro: un caso di disturbo ossessivo compulsivo

* Coltivare il piacere ignorando il piacere: un caso di problemi sessuali

* Volere volare: come superare la paura dell'aereo e "prendere il volo"

* Giacomino lo sputatore: un caso di compulsione nei bambini

* Studiare di più studiando di meno: un caso di blocco dello studente

* "Soffro di impotenza": un caso di presunta impotenza

* Di che colore compro il maglione?: un caso di dubbio patologico

* I serpenti nella pancia: un caso di blocco scolastico

 

 

 I nomi dei pazienti dei resoconti clinici sono inventati per il rispetto della privacy

 

  

 “DEVO PROTEGGERE MIA FIGLIA”

una bambina con paure generalizzate

 

Una collega mi invia una signora insieme alla figlia di 12 anni. Si accomodano nel mio studio e la madre, Martina, comincia con il descrivere tutte le problematiche della figlia, Giovanna. La ragazzina cerca sempre la presenza di qualcuno a casa non riuscendo a stare da sola, la notte dorme nel lettone con il suo genitore, a scuola viene presa dal panico per cui chiama spesso telefonicamente la mamma che accorre a prenderla, ha paura dei mostri, etc. etc. etc.

 

La signora Martina mostra estrema preoccupazione riguardo il problema. Prende una serie di precauzioni per rassicurare la figlia, che purtroppo hanno sortito l'effetto opposto: cerca di farla riflettere sul fatto che non debba avere paura, ma poi di fatto la asseconda in tutte le sue richieste di aiuto.

 

Tale forma comunicativa contraddittoria è tipica di quei sistemi comunicativi nei quali, con le migliori intenzioni, si crea un doppio effetto deleterio tra parole e i comportamenti. Le parole ignorano le paure della bambina, le quali sono invece reali, creando ancora più disagio rispetto a ciò di cui teoricamente non si dovrebbe temere. I comportamenti di aiuto invece cementificano ancora di più la paura: se la mamma sta assecondando la mia richiesta di aiuto vuol dire che in realtà il  pericolo c'è.

 

Durante la lunga elencazione delle fobie noto come Giovanna, che sembra più piccola rispetto la sua età, se ne stia sulla sedia ingobbita, taciturna, la madre tenta ogni tanto di spronarla a parlare, ma lei si chiude ancora di più in se stessa.

 

A un certo punto mi inserisco nel flusso di parole e in modo calmo e deciso dico alla ragazzina: “Sono abituato a ricevere tanti genitori preoccupati per i figli, ma nel tuo caso devo essere sincero, devo dire a tua madre di rassegnarsi, non penso tu sia capace di stare a casa da sola senza chiedere sempre la vicinanza di qualcuno”. La bambina mi guarda totalmente sorpresa e catturata da questa dichiarazione. Guardo allora la madre dicendole solennemente: “Si rassegni riguardo ai problemi di Giovanna, ha tentato in tutti i modi di rassicurarla, ma sua figlia non è in grado di capire, la smetta quindi immediatamente di dirle di non preoccuparsi. Quando sua figlia vuole lamentarsi delle sue paure la ascolti semplicemente, ma poi eviti di dire qualunque cosa o di starle vicina a tutti i costi”.

 

All'appuntamento successivo notai subito come Giovanna fosse molto più presente, era meno ingobbita sulla sedia e stava ben attenta a quello che si diceva, sembrava volesse dimostrare qualcosa. Io però ignorai temporaneamente questo suo diverso atteggiamento e cominciai la seduta parlando con la madre. La signora ammise che aveva osservato qualche miglioramento, un po' meno ansia nella figlia, che era diventata meno opprimente, ma poi tornò a elencare i soliti problemi. A questo punto fu la stessa ragazzina, per la prima volta in due sedute, ad interrompere la madre dicendo: “Ma io veramente sono stata capace di non chiederti sempre aiuto, né a te né alla nonna. Sono stata anche nella mia stanza da sola per un bel po' di tempo”.

 

Non aspettavo altro, ma a questo punto dovevo giocare al rialzo e dubitare nuovamente delle capacità di Giovanna. Le dissi dunque: “Sono molto sorpreso del fatto che sei riuscita a fare da sola queste cose. Però sinceramente devo dirti che non credo che tu sarai capace di continuare così. Hai 12 anni e dormi ancora con tua madre nel lettone, non sei nemmeno in grado di dormire un'oretta nel tuo letto. Apprezzo il tuo tentativo ma penso che nei prossimi giorni tornerai a comportarti come una bambina piccola”.

 

La ragazzina era nuovamente sbalordita dalla mia frase, ma questa volta la sua espressione era mista, del tipo: accetto la sfida e la prossima volta ti faccio vedere io. La madre aveva capito il gioco, rideva sotto i baffi e partecipava compiaciuta. Anzi, rincarai la dose anche con lei: “Signora, ogni volta che Giovanna le chiede aiuto la compatisca dicendole che è ormai rassegnata al fatto di avere una figlia che ha bisogno di comportarsi come una bambina piccola”.

 

Al terzo incontro la ragazzina era molto più attiva, parlava, e soprattutto doveva annunciare qualcosa di importante: “Diverse notti mi sono addormentata da sola nel mio letto, poi magari mi svegliavo con la paura e andavo nel lettone. Però una volta ho passato una notte intera a dormire da sola”.

 

Anche in questo caso mi complimentai per questo comportamento “inaspettato” da parte di Giovanna. Ma tornai nuovamente a dubitare: “Non è possibile che tu possa continuare a fare le cose da sola. Io sono uno psicologo con esperienza e so che tu hai bisogno di chiedere aiuto e di avere qualcuno vicino. Mi hai smentito per due volte ma non credo tu possa riuscirci per la terza”.

 

Al terzo incontro Giovanna era ben presente e mi elencava tutte le cose che era riuscita a fare da sola, nel frattempo la madre ascoltava compiaciuta e divertita. Il nostro dialogo si svolgeva in modo rilassato. La signora però evidenziò un problema ancora difficile da superare. A volte a scuola la figlia si faceva prendere dal panico, diceva di sentirsi male e si faceva venire a prendere. Dissi allora seriamente alla madre: “Ma signora, lei non può rischiare così. E se sua figlia avesse davvero un malore grave rischiando la vita? Se succede questa cosa la deve subito portare al pronto soccorso. In quanto genitore ha la responsabilità sulla bambina. Al pronto soccorso metteranno un respiratore sulla faccia di sua figlia e le faranno delle punture, ma almeno non sarà in pericolo di vita”. Giovanna aveva ascoltato il discorso molto attentamente, l'idea di finire in ospedale e di ricevere quei trattamenti la preoccupava alquanto. Da quel giorno, magicamente, non chiese più di essere presa da scuola prima del normale scadere delle lezioni.

 

Questa tecnica consiste nel vincere una paura utilizzando in realtà una paura più grande.

 

Le sedute andarono avanti in modo sempre più diluito nel tempo. Ogni volta mi complimentavo con Giovanna per i traguardi raggiunti, poi però giocavo puntualmente al rialzo dubitando che riuscisse a farne altri. Qualche mese dopo la conclusione della terapia ricevetti una telefonata di madre e figlia che parlando tra loro dei nostri incontri avevano avuto la voglia di salutarmi e ringraziarmi.

 

Queste tecniche terapeutiche studiate ed usate appositamente in questo caso molto particolare devono comunque far riflettere ogni genitore. I figli che crescono hanno una naturale propensione alla sfida e al superamento degli ostacoli. A volte usare un atteggiamento dubitante o di sfiducia può essere molto più motivante per un adolescente che cresce.

 

 

 L'HO FATTO BENE MAMMA?

una bambina con disturbo ossessivo compulsivo

 

I genitori di Marika avevano trovato il mio contatto documentandosi su internet riguardo l'utilizzo degli approcci di psicoterapia strategica con i bambini. Si presentano in studio preoccupati per dei comportamenti allarmanti della figlia, letteralmente esplosi nelle ultime settimane. La bambina, di 9 anni, mostra estrema preoccupazione verso tutto ciò che la potrebbe sporcare, dopo o durante ogni normale attività corre in bagno a lavarsi e chiede insistentemente ai genitori se si fosse pulita bene.

 

Oltre questa evidente mania Marika manifestava altre esasperanti particolarità. Chiedeva continuamente rassicurazioni alla madre: sui contagi delle malattie, sull'aver compiuto bene un compito, sul pericolo di svolgere normali azioni, sul modo giusto di fare le cose, praticamente su tutto. Queste pressanti richieste assorbivano ormai la maggior parte del tempo della famiglia nelle ore trascorse a casa.

 

Indagando riguardo il problema notai subito un'eccezione. Tali comportamenti erano notevolmente meno frequenti, o addirittura inesistenti a scuola. In realtà la frequenza diminuiva nettamente se con la bambina era presente solo il padre e non la madre. Chiesi allora alla signora cosa cercasse di fare per arginare tali manifestazioni problematiche in sua presenza. Rispose che aveva fatto di tutto. Era stata comprensiva, rassicurante, aveva spiegato alla figlia che non c'era niente da temere riguardo i pericoli dello sporco e delle malattie. In preda all'esasperazione si era anche più volte innervosita, gridandole che era tutto a posto e che era esagerata. Adesso era venuta insieme al marito nella più totale confusione, assolutamente persa riguardo il da farsi.

 

Chiedendo ulteriormente come funzionasse il circolo vizioso capii che la signora, nonostante le sue posizioni, stremata dalle sue pressanti richieste di rassicurazioni ed aiuto finiva puntualmente con il cedere, tentando invano nuovamente di calmare la bambina con la ragione.

 

La situazione era delicata, ma capivo che si poteva agire ed anche velocemente. Dissi solennemente che non avevo bisogno di vedere o parlare con la bambina ma che avrei chiesto la totale collaborazione di loro genitori, che avrebbero così dovuto eseguire alla lettera le indicazioni che gli avrei dato perché il problema rischiava di peggiorare ulteriormente. Vista la situazione allarmante accettarono senza indugio.

 

Indicai dunque: “da qui alla prossima volta che ci vedremo, ogni volta che Marika andrà in bagno a lavarsi per via della sua fobia di essersi sporcata, voi la obbligherete a rilavarsi per altre tre volte”.

I due rimasero stupiti e perplessi - “non dobbiamo rimproverarla riguardo il lavarsi le mani o dirle che sono pulite?” - chiese la madre. “Assolutamente no” - risposi - “ogni volta che la bambina va a lavarsi e vi chiede se è ben pulita voi dovete esigere che torni a lavarsele per altre tre volte. In questo modo sarete voi a prendere possesso di questa mania e non sarà più essa a possedere la bambina, fate così, la prossima volta faremo il punto della situazione”.

 

Riguardo invece i rituali rassicuratori, basati sulle continue richieste e spiegazioni, la madre non si sarebbe più soffermata a spiegare e rassicurare, ma avrebbe dato ogni volta una risposta standard: tu che ne pensi? Anche in questo caso la reazione della signora era tra la sorpresa e lo sconcerto; molto meno stupita invece quella del marito, si era da tempo reso conto che ogni tentativo di rassicurazione verso la figlia non sortiva alcun effetto.

 

Diedi appuntamento ai genitori dieci giorni dopo, in questo spazio di tempo si sarebbe potuto fare un primo ragionevole bilancio della situazione.

 

Al secondo incontro i due riferirono che le indicazioni avevano avuto degli effetti visibili molto presto, sopratutto riguardo la compulsione al lavaggio. Dopo i primi due giorni, nei quali Marika si lavava con rinnovato vigore sotto insistenza dei genitori, nel periodo successivo si era mostrata scocciata riguardo il pulirsi ulteriormente per tre volte, riducendole a delle banali e veloci, quanto noiose, sciacquate. Ciò aveva avuto anche un altro effetto, era notevolmente diminuito il suo correre in bagno per lavarsi. La bambina aveva capito che andando a pulirsi sarebbe stata costretta a rifarlo ancora e ancora, e ciò la annoiava terribilmente.

 

Stessa parabola discendente, ma un po' meno netta, si era manifestata riguardo le continue richieste di rassicurazione. I primi giorni, di fronte la risposta standard della madre, la bambina entrava in escandescenza, la minacciava di non essere una brava mamma e di non capirla. La signora mi raccontò di come avesse vacillato in questa situazione, ma era stata brava ed aveva tenuto duro. Con il passare del tempo anche le richieste di rassicurazione erano diminuite. Marika stava constatando che anche senza le rassicurazioni della mamma non accadeva niente di terribile e quindi stava imparando da sola dall'esperienza.

 

Mi complimentai con la coppia, in particolar modo con la madre, per essere stata capace di eseguire le indicazioni alla lettera mantenendo la rotta. Confermai le indicazioni e fissai il terzo appuntamento due settimane dopo.

 

Per motivi di brevità eviterò di citare nei particolari tutto il caso clinico qui esposto. Mi limito a informare che, a parte dei piccoli aggiustamenti sulle indicazioni, la terapia indiretta (non ho mai incontrato la bambina) si è conclusa in sette sedute, le ultime delle quali svoltosi a distanza di un mese e poi due mesi di tempo, come controllo, per essere certi che non si verificassero ricadute.

 

Una compulsione è vissuta come una spinta incontrollabile a mettere in atto un comportamento. Obbligare tale comportamento lo rende volontario, e quindi controllabile, ma se posso controllarlo allora posso anche cominciare a decidere di non farlo: la persona impara così da se stessa.

 

Riguardo le richieste di rassicurazione la logica è invece diversa. Se io rassicuro continuamente qualcuno sto in realtà comunicando che una qualche forma di problema c'è, quindi con il mio stesso comportamento lo sto alimentando. Togliendo tale concime alla piante infestante del dubbio la bambina è stata messa nelle condizioni di dissipare le sue paure catastrofiche, constatando da sola che non si avveravano lo stesso. Ovviamente l'effetto è stato quello di rasserenarsi completamente.

 

Un problema complesso, ma non complicato, ha trovato la sua soluzione controvertendo, e quindi annullando, le medesime logiche che lo hanno incrementato.

 

IL MAGICO NUMERO QUATTRO

 

 

Un distinto signore sulla cinquantina si presenta nel mio studio per un consulto. Racconta come, fin da ragazzo, avesse avuto alcune strane “abitudini”, con le quali aveva sempre convissuto e a cui non dava particolare peso. Nessuno se ne era mai accorto, nemmeno la moglie, per tanti anni, anche perché il signor Marco (nome inventato per la privacy) comunque nascondeva agli altri le sue “particolarità”. Ma adesso, in concomitanza con un periodo particolarmente stressante, queste abitudini erano diventate delle manie asfissianti che lo occupavano gran parte della giornata. Al momento del nostro primo incontro Marco passava buona parte del suo tempo a contare, contava tutto quello che faceva, tutte le azioni che svolgeva potevano essere contate. Ma doveva anche “sistemare” qualcosa che aveva possibilmente fatto male, come ad esempio la tovaglia del tavolo, o il dentifricio, o il gas... la lista potrebbe diventare pressoché infinita, si costringeva a contare e sistemare qualsiasi cosa. Si trattava di un conclamato ed evidente disturbo ossessivo compulsivo.

 

Effettuando strategicamente l'analisi del problema, attraverso domande specifiche e mirate per capirne il funzionamento, venne fuori un'importante specificità, usata poi prontamente durante la terapia. Marco non contava a caso, non risistemava gli oggetti e non ricompiva le azioni casualmente. Doveva svolgere i suoi rituali compulsivi esattamente quattro volte. Sentiva un impulso irrefrenabile che lo costringeva a controllare quattro volte, ma spesso ciò non bastava, per cui doveva impegnarsi di nuovo per altre quattro volte, in serie che diventavano via via sempre più lunghe, ma sempre a ritmi di quattro controlli per volta.

 

Qualunque protocollo terapeutico va adattato alla pratica clinica cogliendone le specificità dei singoli casi. Presi allora la palla al balzo e sfruttai positivamente il suo numero magico, in modo da farne un alleato prezioso, invece che un nemico da combattere. Dissi allora al paziente che mi sarei occupato di lui. Sempre più spesso, dall'intera provincia di Trapani, arrivano nel mio studio persone con problematiche compulsive.

 

Indicai dunque così: “da qui alla prossima volta che ci vedremo, ogni volta che le verrà di mettere in atto uno dei suoi rituali, compreso quello del contare, dovrà farlo esattamente quattro volte quattro, né una volta di meno né una volta di più. Può decidere di non farlo, ma se lo farà lo farà esattamente quattro volte quattro, né una volta di più né una volta di meno”. Tale indicazione, riferita in modo ridondante, scandendo bene le parole e guardando direttamente negli occhi il paziente, ha un potente effetto suggestivo. Marco era catturato dal linguaggio utilizzato. Era sorpreso per tale apparentemente strana prescrizione terapeutica, ma anche rassicurato. Non gli chiedevo di rinunciare ai suoi rituali. Adesso però doveva metterli in atto volontariamente, per quattro volte quattro però, oppure avrebbe potuto decidere di non farli.

 

All'incontro successivo, due settimane dopo, il signor Marco riferì che le cose erano andate meglio. Aveva svolto i rituali non più sotto il vecchio impulso irrefrenabile, ma sotto il suo controllo, per quattro volte quattro. Questo sopratutto nei primi giorni. Mi raccontò di aver controllato la chiusura del cancello, il gas e di aver toccato volontariamente tante altre cose. Però dopo i primi giorni qualcosa stava cambiando. Si era preso noia nel controllare ogni volta per quattro volte quattro, sentiva che diventava faticoso. Aveva dunque cominciato a preferire di evitare di contare e controllare. Quando chiesi in quale percentuale stesse attualmente evitando di mettere in atto i rituali, cioè al quattordicesimo giorno della terapia, marco rispose che i rituali erano al 50%. Aveva avuto il dimezzamento dei sintomi del proprio disturbo ossessivo compulsivo già tra la prima e la seconda seduta.

 

Fui positivo nell'accogliere queste notizie ma misi subito Marco di fronte al suo impegno terapeutico, avrebbe dovuto continuare, anzi, rincarare la dose. Gli dissi: “adesso metterà in atto il suo rituale esattamente otto volte quattro, né una volta di più né una volta di meno, può decidere di non farlo oppure lo farà esattamente otto volte quattro”. Aggiunsi, sfruttando la sua tendenza ossessiva e perfezionista, che l'indicazione andava eseguita con assoluta precisione.

 

All'incontro successivo il paziente aveva ulteriormente ridotto i rituali; farli per ogni volta otto volte quattro era una specie di tortura e sempre più spesso aveva preferito evitare di farli, visto la noia che arrecavano. Si trattava di un bel cambio di prospettiva.

 

Proseguimmo la terapia in cui venne data un'ulteriore aggiunta alla prescrizione: fare i rituali dodici volte quattro. Evidentemente l'effetto fu che Marco finì con l'interromperli del tutto. Aveva completamente azzerato le sue compulsioni nelle prime cinque sedute. I successivi incontri, a distanze sempre più diluite nel tempo, furono un accompagnamento per aiutare Marco a gestire l'ansia residua che gli veniva dall'evitare di compiere i propri rituali. Infine congedai il paziente alla nona seduta, nella quale continuò a manifestare piena e completa soddisfazione e sicurezza dalla vecchia schiavitù compulsiva. I rituali erano azzerati ormai da mesi, l'ansia era un vecchio ricordo e Marco aveva imparato a portare con sé la normale ansia, propria di ogni essere umano, evitando di combatterla, portandosela con sé come una preziosa compagna nel percorso della propria vita.

 

 

COLTIVARE IL PIACERE IGNORANDO IL PIACERE

un caso di problemi sessuali

 

Francesco, un uomo di circa 35 anni e sposato da due, si presenta nel mio studio in evidente stato di ansia. Ciò che lo turba è la grande preoccupazione per la relazione con la moglie. Anche se le vuole bene e la desidera, da qualche tempo ha manifestato sempre più frequenti episodi di defaillances nell’intimità con lei: molto spesso non riesce ad eccitarsi o riesce solo per poco tempo. Si sente sfiduciato e le sue giornate sono dedicate a pensare al suo problema, assumendo però toni con il passare del tempo sempre più disperati.

 

Dopo aver avuto un resoconto generale del problema domandai al paziente cosa cercasse di fare per fronteggiare la situazione e quali accorgimenti avesse cercato di prendere. Rispose di non aver preso nessun accorgimento particolare; semplicemente nei momenti di intimità cercava di concentrarsi su se stesso e sul proprio piacere, ma il più delle volte non otteneva niente, anzi, non riuscendovi, si scoraggiava ancora di più.

 

Questa considerazione, apparentemente scontata, era in realtà molto importante, ma al momento non sottolineai la cosa. Continuai a fare le mie valutazioni e dissi di rivederci al prossimo incontro in compagnia della moglie perché avrebbe potuto aiutarci fornendo ulteriori preziose informazioni. Aggiunsi soltanto una cosa: “nella prossima settimana evita di sforzarti rispetto al tuo problema, per ora c’è e più cerchi di combatterlo più peggiora”.

 

Vidi la coppia la settimana successiva così come avevo chiesto. Il marito esordì dicendo che, dopo la mia osservazione di evitare di sforzarsi per il suo problema si era un po’ rassegnato, ma stranamente il loro primo rapporto dalla mia consulenza era andato bene; nei successivi però si era di nuovo preso di ansia ed il risultato era stato un flop totale. Aveva intuito però che il suo modo di affrontare il problema aveva delle influenze notevoli perché proprio nell’occasione in cui si era rassegnato le cose erano invece funzionate.

 

La moglie, Caterina, sia pur preoccupata, si mostrava anche risentita per il problema. Aveva cercato per mesi di capire, di domandare, ma non c’era stata spiegazione che la persuadesse. Si sentiva non piaciuta, nonostante le rassicurazioni del marito. “E per quanto riguarda i vostri momenti di intimità, cosa cerchi di fare?” – le chiesi. “Non faccio niente, sto lì ad aspettare sperando che funzioni, ma spesso non avviene e mi scoraggio” – rispose.

 

Dopo tutte le considerazioni del caso dissi alla coppia che il problema si poteva affrontare, avremmo però dovuto fare un importante esperimento nelle successive due settimana. Sarebbe stato qualcosa di apparentemente strano, ma che la coppia avrebbe dovuto eseguire alla lettera, su questo punto fui molto deciso e direttivo. Indicai dunque: “In tutti i vostri prossimi contatti intimi voglio assolutamente che tu (rivolto alla moglie) prendi in mano la situazione. Devi assumere un ruolo attivo e cercare di stimolare il piacere in tuo marito. E tu invece (rivolto al marito) ti devi comportare come se fossi… una statua di ghiaccio! Stai lì fermo, qualunque cosa faccia tua moglie. Devi assolutamente ignorare quello che lei fa, allontana da te qualunque sensazione di piacere. Ti devi allenare a fallire ancora di più, mentre lei cercherà invano di procurarti quel piacere che invano arriverà. Esercitatevi dunque a fallire volontariamente”.

 

Sbigottiti per l’indicazione apparentemente assurda, ma talmente sorprendente e inconsueta rispetto ai loro modi di fare, si impegnarono a seguirla. In fondo si trattava di fare questo esperimento per due settimane.

 

All’incontro successivo si accomodarono nel mio studio. Notai un’espressione più rilassata nel marito ed un sottile imbarazzo nella moglie. “Come sono andate le cose?” – domandai. “Non ci siamo riusciti” – rispose l’uomo. “In che senso?” - dissi.

 

In realtà avevano messo in pratica l’”esperimento”, ma ogni volta, nonostante Francesco si fosse sforzato di non sentire niente, si era eccitato. Si era veramente impegnato nell’allontanare da sé ogni sensazione, ma non ci era riuscito, anzi, il suo corpo aveva avuto la reazione opposta. Di fronte a tali “occasioni” la moglie ne aveva sempre approfittato. Poi dopo pochi giorni Caterina aveva avuto degli impedimenti fisici ed avevano dovuto interrompere l’”esperimento”.

 

Chiesi allora: “Ma secondo voi, aver concretizzato i vostri rapporti, nonostante il mio divieto, è un fatto positivo o negativo?”. I due erano interdetti, ma quello che era successo, pur essendo apparentemente incomprensibile e assolutamente inaspettato, era nei fatti un segnale positivo. Commentai allora: “Il piacere è una cosa spontanea, più lo si cerca volontariamente e più lo si rende freddo e inconsistente. In questo caso invece, cercando a tutti i costi di combatterlo, è uscito fuori con prepotenza”.

 

Quello che avevo proposto come un esperimento era in realtà una precisa manovra terapeutica per questo tipo di problema. Avrebbero allora avuto un mese di tempo per metterla in pratica con più frequenza: lei avrebbe continuato ad essere la parte attiva, lui la statua di ghiaccio che cerca di allontanare da sé qualunque sensazione.

 

All’incontro successivo, un mese più tardi, i due erano sereni. Avevano continuato a fare come indicato, ma qualche volta si erano “scocciati”. L’uomo non aveva resistito alla voglia e in diverse occasioni aveva ribaltato la situazione, assumendo lui il ruolo più attivo. Tra piccole risate e commenti autoironici, evidenti segnale di rilassatezza, la seduta fu tranquilla e servì a ribadire il concetto: il piacere più lo cerchi e più lo soffochi, più lo lasci andare o addirittura cerchi di bloccarlo, più esplode.

 

 

Vidi la coppia un’ultima volta dopo due mesi, tranquilla e serena. Francesco confidò che all’inizio non credeva nella terapia, ma era talmente disperato per il suo problema da affidarsi a questa soluzione. Entrambi erano rimasti sorpresi dalla velocità con cui la situazione era nettamente cambiata. Io invece ero fiducioso fin dall’inizio, sapevo che questo tipo di problematiche, applicando la corretta logica di soluzione, si sbloccano velocemente. Anche in questo caso per un problema complesso è stata sufficiente una soluzione apparentemente semplice.

 

VOLERE VOLARE

come superare le paure dell'aereo e "prendere il volo"

 

La paura dell’aereo è un fenomeno più frequente di quanto si creda. Riguarda non solo persone che evitano completamente di prendere l’aereo, ma anche quegli individui che limitano il più possibile tale modalità di spostamento o lo affrontano con estrema ansia ed una miriade di precauzioni: farsi accompagnare, assumere tranquillanti, cercare (inutilmente) di distrarsi o rassicurarsi.

 

Due miei pazienti di Trapani, un ragazzo ed una signora, entrambi curati efficacemente per una problema di attacchi di panico, verso la fine della terapia, ormai fuori dal proprio problema, avevano deciso di prendersi una vacanza e partire con l’aereo. Nel passato avevano avuto estrema paura riguardo i voli, ma adesso, anche sull’onda dell’entusiasmo per i risultati ottenuti, erano determinati a volare. Mi chiesero dunque aiuto sul come affrontare questa paura specifica.

 

La terapia strategia evoluta, modello “Giorgio Nardone”, nella quale mi sono formato come psicoterapeuta, ha formulato degli specifichi protocolli di trattamento per questa paura, comprovati nell’efficacia e nell'efficienza dei risultati. In questa situazione diedi allora ai due pazienti la medesima indicazione.

 

Nelle due settimane precedenti il volo, anziché auto rassicurarsi, cercando di convincersi che tutto sarebbe andato bene, avrebbero dovuto ritagliarsi giornalmente del tempo per effettuare la propria “peggiore fantasia”: “Ti metti comodo seduto su una poltrona o anche disteso a letto se vuoi, programmi una sveglia a suonare esattamente 30 minuti dopo. In questo frangente, volontariamente e deliberatamente, pensi al peggio del peggio rispetto alla tua paura di volare. Immagini proprio le cose più terribili, il volo che andrà male, la tragedia di un incidente, tutti i tuoi terribili timori”.

 

I pazienti, avendo superato i propri attacchi di panico, avevano già sperimentato questa indicazione ed i suoi effetti. Accettarono quindi di buon grado di metterla in pratica.

 

Pochi giorni prima del volo ci incontrammo nuovamente. Mi raccontarono entrambi che il forzarsi di pensare alle cose peggiori aveva inizialmente creato agitazione, ma successivamente più si sforzavano di provare l’ansia meno ci riuscivano, in qualche caso si erano pure addormentati. Andare incontro ai propri fantasmi non era stato così terribile, anzi, la paura era molto diminuita.

 

Diedi quindi l’indicazione finale: “Il giorno della partenza, fin da quando ti prepari per il viaggio e durante il tragitto in aeroporto, pensa volontariamente alle tue peggiori fantasie. Una volta in aeroporto, attraversato il gate, fai questa cosa specifica: guarda attentamente gli altri viaggiatori alla ricerca di ogni minimo segnale di paura nei loro comportamenti. Sai, ci sono molti che hanno paura di volare, ma cercano di mascherarla, guarda allora molto attentamente. Continua a guardare durante l’ingresso in aereo e soprattutto durante la fase del decollo, momento in cui noterai segni più evidenti. Se dovessi sentire l’ansia dentro di te incrocia le mani e premi forte sul pollice, sentirai dolore. Continua a pigiare fino a quando senti che l’ansia diminuisce. Nel frattempo prosegui ad osservare i segnali di paura nei passeggeri. Quando vuoi puoi comunque goderti il viaggio. Una volta atterrato inviami un sms con scritto: volo completato”.

 

Nelle giornate in cui fecero ognuno il proprio viaggio ricevetti l’sms, in uno dei due messaggi ci fu anche un’aggiunta: volo completato, grazie di tutto.

 

Perché queste manovre ebbero un successo così immediato? Cosa andavano a ribaltare?

 

Nelle paure patologiche, ciò che la persona cerca principalmente di fare è l’auto rassicurazione; si racconta da sola che tutto andrà bene e che non c’è niente di cui dover avere timore. Ma purtroppo a questi livelli di problematicità l’effetto che si ottiene è esattamente opposto, si ottiene maggiore paura e perdita di controllo. La tecnica della peggiore fantasia ribalta completamente questa situazione: non sono più io a scappare dal mio fantasma, terrorizzandomi ancora di più, ma ci vado incontro volontariamente. Ciò ha un effetto paradossale, cercando di andare più a fondo scopro che in realtà galleggio.

 

E l’indicazione di osservare la paura negli altri passeggeri?

 

Si tratta di un compito distraente. Focalizzandomi sugli altri distolgo l’attenzione da me stesso, ma se dovessi sentire la paura dentro di me, pigio sulle dita fino a sentire male, anche questo è un compito che, eseguito alla lettera, è realmente distraente, ci si concentra sul dolore che si sente sulle dita.

 

 

Per la paura di volare, che può raggiungere importanti forme di invalidanza e limitazione nella vita di una persona, le manovre terapeutiche sono state identiche per entrambi i pazienti, gli incontri terapeutici soltanto due. Tutto ciò dimostra ancora una volta che anche i disturbi più estremi, con la giusta chiave di cambiamento, si risolvono velocemente e positivamente.

 

 

GIACOMINO LO SPUTATORE

un caso di compulsione nei bambini

 

Non è detto che un adeguato intervento psicologico debba avvenire necessariamente all'interno di una seduta terapeutica. Anzi, nelle mie tecniche di intervento, attraverso le indicazioni che consegno ai pazienti, li metto nella condizione di compiere buona parte del cambiamento terapeutico proprio al di fuori dalla seduta, in modo che imparino dalla propria esperienza.

 

Giacomino era un bambino di 7 anni che frequentava il centro di aggregazione di cui ero responsabile anni fa. Era iscritto al doposcuola e dopo un paio di mesi notai un suo comportamento particolare: quando si trovava nel cortile da gioco sputava per terra. Lo faceva frequentemente, camminava e sputava, giocava e sputava, da solo o in compagnia.

 

La prima volta che notai questa cosa mi limitai a dirgli che non era bene sputare, che non andava fatto. Successivamente osservai ripetersi il fenomeno  ed evitai di intervenire, pensando che avrebbe potuto scomparire nel tempo se avessi evitato di dargli importanza. Ma giacomino continuava a sputare, imperterrito e irrefrenabile.

 

Dopo qualche giorno feci una cosa ben precisa, chiamai con entusiasmo il bambino e gli dissi: “Ho saputo che in un Oratorio qui vicino c’è un ragazzino molto bravo a sputare. Vedo che anche tu sei bravissimo e ho pensato che potremmo organizzare una sfida. Potremmo fare una gara di sputi: a chi sputa di più! Sono sicuro che tu puoi batterlo! Però è necessario che ti alleni bene, perché quel bambino è molto forte a sputare”.

 

Giacomino raccolse con infantile entusiasmo la mia proposta. Mi ero premunito di dirgli questa cosa nel primo pomeriggio, quando in cortile non c’era ancora nessuno e prima che il doposcuola iniziasse. Cominciammo subito gli allenamenti! Camminando velocemente in cortile (giacomino aveva l’argento vivo addosso) lo incitavo continuamente a sputare. Doveva fare più sputi possibili in un minuto, io ero lì a cronometrare tutto quanto. Nei primi minuti si impegnò molto, anche se dopo poco, per forza di cose, la salivazione finiva e doveva fare un bello sforzo ogni volta che cercava di sputare. Tuttavia si applicava molto e dopo poco tempo mi chiese di fare una pausa. Lo accontentai per pochi secondi, ma poi lo incalzai dicendogli che se voleva riuscire a battere il suo temibile avversario doveva allenarsi duramente e rimettersi in campo.

 

Stavo cominciando con il rendere lo sputo non più comportamento spontaneo e compulsivo, ma un comportamento volontario, macchinoso e noioso. Quel giorno l’allenamento durò circa un quarto d’ora, poi giacomino filò dritto al fare il suo doposcuola.

 

Il giorno successivo allo stesso orario e nella stessa situazione ricominciammo il “training dello sputo”, ma stavolta, dopo pochissimi minuti il bambino pareva scocciato e stanco. “Forza, a te piace sputare! – lo incalzai – e poi devi riuscire a battere il tuo rivale”. Riuscii a tenerlo centrato sul compito per nemmeno dieci minuti, poi se ne andò via lasciandomi da solo, nonostante le mie esortazioni a non mollare.

 

L’indomani provai ancora a coinvolgere il piccolo nel compito, ma non ne volle proprio sapere, giacomino era di poche parole e andando a giocare con gli altri bambini aveva detto tutto.

 

Da allora non l’ho più visto sputare, mai, nemmeno una volta. Giocava normalmente in cortile da solo o insieme agli altri senza più il suo sgradevole comportamento compulsivo.

 

Come commentare questo caso? Forse qualcuno potrebbe supporre che giacomino fosse un bambino disagiato, si potrebbe interrogare circa le cause del suo comportamento, andando ad indagare il suo sistema familiare. Forse poteva trattarsi di un bambino iperattivo e lo sputare poteva essere una sorta di meccanismo automatico per dare sfogo alle sue energie; etc. Io personalmente non penso nessuna delle possibilità citate, ma se anche la mente più brillante riuscisse a trovare la presunta causa del problema, ciò servirebbe bene poco rispetto alla sua estinzione.

 

Ogni problema è profanato dalla sua soluzione: analizziamo allora ciò che ha funzionato.

 

 Lo sputare era diventato per giacomino un comportamento automatico, naturale, irrefrenabile, compulsivo. Ma doversi allenare deliberatamente faceva si che il bambino ne prendesse il controllo volontario; non solo, adesso farlo in continuazione era diventato faticoso e noioso. Il bambino aveva imparato dalla sua esperienza che poteva decidere volontariamente quando sputare, e che sputare non era poi così bello, a questo punto decise volontariamente di non sputare più. La soluzione, per quanto paradossale sia, si è rivelata semplice ed efficace. Ma soprattutto ricalca la logica del problema, ribaltandola e facendolo collassare su se stesso.

 

Penso che il filosofo medievale Guglielmo da Occam avesse perfettamente ragione quando diceva: “invano ciò che può essere fatto con poco viene fatto con molto”.

 

 

STUDIARE DI PIU' STUDIANDO DI MENO

un caso di blocco dello studente

 

Michele ha 23 anni, frequenta l’università fuori città. Ha sempre avuto ottimi risultati agli esami, studiando con frequenza e impegno. Da un anno a questa parte però non riesce più a concentrarsi, vorrebbe studiare meglio, imparare di più da quello che legge. Si impone di stare seduto sui libri per ore al giorno, ma poi la sua mente vaga e rimprovera continuamente se stesso di non ottenere lo stesso rendimento degli anni passati. Gli mancano poche materie, ma sono diventate come delle zavorre, un peso enorme, impossibile da scaricare.

 

A una mia domanda viene fuori un importate elemento da considerare nella terapia. Questo problema si è manifestato gradualmente o avuto un inizio improvviso, legato a qualche avvenimento?

 

Il giovane ammise con riluttanza che tutto era partito da una delusione in amore avuta alla fine della precedente estate. Era stata una relazione come un fuoco di paglia, divampata con alte fiamme all’inizio delle vacanze e terminata repentinamente dopo pochi mesi. Michele aveva creduto in questa storia e non era stata una sua responsabilità interromperla. Dopo questa esperienza si sentiva sfiduciato verso le donne e se stesso, non usciva quasi più di casa. Si era voluto concentrare sullo studio per laurearsi il prima possibile, ma paradossalmente aveva molto rallentato i suoi risultati. Dopo quattro ottimi anni universitari, adesso erano mesi che non riusciva a sostenere un esame.

 

Dal colloquio terapeutico emerse che lo studente pensava ancora a quella storia e che, nel tempo passato sui libri, pur cercando di dimenticarsi della ragazza, finiva con il pensare continuamente a lei.

 

A questo punto ho a disposizione gli elementi che mi permetteranno di intervenire a livello terapeutico. Ci sono due tentate soluzioni che Michele mette in atto per affrontare il problema, ma che purtroppo lo aggravano ulteriormente:

* cerca di non pensare alla ragazza, ottenendo l’opposto e togliendo energie mentali al proprio rendimento;

* si imponte di studiare per molte ore al giorno, rimproverandosi di non riuscire a concentrarsi di più.

 

Scelgo di affrontare il problema gradualmente, dando un’indicazione riguardante la passata delusione in amore, purtroppo nella mente del ragazzo ancora molto presente. Indicai dunque così: “Ti armerai di un quadernone ed una penna e tutte le sere, da solo nella tua stanza, scriverai la storia della tua relazione con la tua ex ragazza. Come se tu fossi lo scrittore del romanzo della tua stessa vita, ripercorri, paragrafo per paragrafo, da quando tutto andava bene, a quando le cose si sono incrinate, alla rottura definitiva, tutti i passaggi della tua relazione. Scrivi ogni sera un passaggio diverso e, non importa la forma, la grafia o gli errori grammaticali, butta fuori tutto il veleno che, se rimane dentro di te, finisce con l’intossicarti dal di dentro”.

 

Michele accettò l’indicazione; si rendeva conto che qualcosa andava sbloccato proprio lì. “Ma per lo studio non devo fare niente?” – chiese. Risposi che al momento avrebbe fatto quello che poteva, senza alcuna forzatura, il primo passo da compiere era quello che gli avevo appena indicato.

 

La successiva seduta il giovane parlò spontaneamente della sua delusione amorosa. Dopo le prime serate di scrittura, in cui aveva molto pianto, si era accorto che scrivere lo aiutava a scaricarsi dal peso dei suoi pensieri. Rivivendo passo dopo passo i propri ricordi dolorosi essi diventavano gestibili, non più insopportabili, ma malinconici. Michele stava rimettendo finalmente a posto il proprio passato, conservandolo in un cassetto di cui riusciva a gestire la chiave, chiudendolo e riaprendolo a suo piacimento.

 

Mi congratulai per l’impegno profuso in questo compito e, costatando il suo bisogno di continuare a scrivere, diedi ulteriormente la medesima prescrizione.

 

Alla terza seduta Michele era molto più disteso, parlava della sua storia in modo decisamente meno coinvolto. Aveva scritto di meno sul quaderno, soprattutto nelle ultime serate. Si sentiva bene, distaccato rispetto a quello che gli era successo un anno prima. Riferiva che tutto ciò aveva anche avuto dei risvolti positivi nello studio. In effetti la sua mente era più sgombra, si era concentrato meglio sui libri.

 

Ma si sentiva ancora molto insoddisfatto. Il tempo passa, i programmi delle materie sono lunghi e il giovane consacrava tutto il tempo della propria giornata a studiare; praticamente non aveva vita sociale. Dopo estenuanti sessioni di studio, mattina, pomeriggio e sera, si rimproverava anche di non essere riuscito a memorizzare abbastanza.

 

Prendo allora atto della svolta nella terapia e comincio a concentrarmi sulla seconda tentata soluzione del paziente: il tentativo ossessivo di perseguire il massimo del profitto, finendo con il sovraccaricare la propria mente, ottenendo il minimo. In questo caso decido di dare un'indicazione "soft", per cominciare ad attuare un cambiamento piccolo e graduale.

 

Dissi dunque: “Da qui alla prossima volta che ci vedremo voglio che, nel mezzo del tuo studio, la mattina o il pomeriggio, inserisci una pausa piacevole. Qualcosa che ti piace fare, una passeggiata, un caffè con un amico, scegli tu cosa, ma deve essere qualcosa che tu hai il piacere di fare per svagarti”. Cominciavo in questo modo a inserire nella sua giornata piena di doveri, una piccola oasi piacevole.

 

Anche in questo caso il paziente accettò l’indicazione. Riguardo lo scrivere sul quaderno dissi di farlo soltanto al bisogno; non più tutte le sere, ma solo le volte in cui fosse emerso qualche pensiero o ricordo che lo disturbava. Ci congedammo quindi per la quarta seduta.

 

All’appuntamento successivo Michele riferiva che le cose andavano meglio. Era ancora molto giudicante ed esigente verso se stesso, ma si rendeva conto che la pausa non aveva compromesso lo studio, anzi, gli era servita per staccare la spina: dopo l’interruzione piacevole studiava infatti con maggior profitto. Il ragazzo continuava però a sottoporre se stesso ad estenuanti (anche più dieci ore al giorno) sessioni di studio.

 

Ma avevo ormai messo il piede nella porta nel rigidissimo approccio allo studio del paziente: aveva imparato dall'esperienza che fare la pausa lo aveva reso meno ossessionato e quindi più concentrato sui libri. Adesso potevo facilmente concentrarmi sull'aumentare le pause nello studio nel ragazzo.

 

Le sedute, da quel momento in poi, furono incentrate sul concedersi degli spazi piacevoli maggiori. In pochi mesi il giovane aveva recuperato il piacere della socialità. Usciva di più con gli amici e si era iscritto in palestra.

 

Nello studio Michele era entusiasta, si impegnava di buona lena, massimizzando i risultati. Gli sembrava di essere tornato ai vecchi tempi ed in più sentiva che stava cominciando a godersi la vita. Adesso si applicava sui libri per un tempo accettabile per uno studente universitario: 7-8 ore al giorno. Ma capitavano anche intere giornate, soprattutto di festa, in cui sceglieva di rilassarsi completamente, divertendosi con gli amici. Gli esami di fine sessione confermarono i risultati e Michele riuscì ad sostenere tre materie con ottimi voti.

 

Come nella maggior parte delle problematiche umane, che si fondano su paradossi, in questo caso: cercare di studiare di più ottenendo però di meno; la logica della soluzione si è tradotta in un contro paradosso: mi concedo di studiare di meno, riuscendo ad ottenere di più.

 

 

"SOFFRO DI IMPOTENZA"

un caso di presunta impotenza

 

   Giovanni è un ragazzo che studia all'università all'estero. Riferisce di aver sempre avuto una vita normale e tranquilla, ma c'è un problema che vive negli ultimi anni e che lo angoscia sempre di più. “Soffro di impotenza”, esclama ad un tratto.

 

      Un buon psicoterapeuta deve evitare di lasciarsi impressionare dalle espressioni categoriche e quasi rassegnatdei pazienti. Qualunque diagnosi o auto-diagnosi, se non supportata da un intervento efficace, ha il potere di creare letteralmente il problema che si cerca disperatamente di risolvere.

 

    Comincio allora con il porre un'importante domanda, che creerà un profondo solco da percorrere nella terapia: “tu non riesci mai ad avere un'erezione o il problema si manifesta solo quando ti trovi in intimità con qualcuno?”. Il ragazzo risponde di 'funzionare' perfettamente. Il problema è presente soltanto durante i momenti di intimità e questo provoca un senso di sconfitta, misto a penosa vergogna.

 

      Purtroppo al giorno di oggi si tende a medicalizzare eccessivamente qualunque problema. Viene puntualmente proposta una pillola per curare qualunque 'malattia organica', dovuta magari a presunte cause genetiche. Spesso ci si dimentica che quando si è malatlo si dovrebbe essere in tutte le circostanze. Chi ha il raffreddore sente il naso chiuso la mattina, la sera, a casa, in ufficio, a letto, sempre. Non si può definire impotente una persona che ha delle normali erezioni durante la giornata e poi si blocca nell'intimità. Questa apparente semplice rivelazione non era affatto scontata per il giovane paziente.

 

       “Cosa pensi e cosa cerchi di fare in quei momenti, quando ti trovi da solo con la tua partner?” - chiesi successivamente. Giovanni disse che era concentrato sul proprio corpo, nella speranza di poter avere l'erezione ma, non riuscendovi, si preoccupava ancora di più. “Quindi, invece che essere concentrato sulla tua ragazza sei concentrato su di te, questa cosa, secondo il tuo parere, aumenta la tua eccitazione o la diminuisce?”. “Penso proprio che la diminuisca, ma il fatto è che io non so più cosa fare”.

 

      Da questa paradossale ricerca volontaria di ciò che dovrebbe essere spontaneo il ragazzo ne usciva puntualmente sconfitto. Ma c'era un altro fondamentale fattore che impediva ad ogni incontro di essere naturalmente rilassato: la vergogna. Giovanni non aveva mai detto a nessuna partner di avere questo problema, anzi, aveva sempre escogitato una scusa per interrompere i preliminari o si era giustificato con un: “non mi era mai successo prima”. A volte aveva anche troncato delle relazioni per il timore che il problema potesse ripresentarsi di nuovo. Ma adesso stava con una ragazza a cui teneva tanto, le piaceva molto, e voleva ad ogni costo risolvere questa situazioneIn tutto ciò il giovane disse anche che avevamo soltanto un mese di tempo a disposizione, perché poi sarebbe tornato all'estero per motivi di studio.

 

      Dissi che ero disposto ad occuparmi di lui, ma che avrei dato delle indicazioni molto precise, da seguire tra una seduta e l'altra, ed anche se fossero risultate strane o poco comprensibili, avrebbe dovuto assolutamente eseguirle alla lettera. “Sono pronto!”, esclamò allora.

     “Bene – dissi – per prima cosa dobbiamo fare delle prove 'sperimentali', un po come se dovessimo lanciare dei palloni sonda per esplorare la situazione. Ogni volta che ti troverai in intimità con la tua ragazza durante i preliminari dovrai fermarti, guardarla negli occhi e dirle: sai, c'è una cosa che ti volevo dire e che mi tengo dentro, tu mi piaci tanto, sei bella, ed io ci tengo particolarmente a te. Esserti vicino, alla tua bellezza, mi emoziona. Questa cosa mi sconvolge, mi fa perdere la testa, quindi sappi che sicuramente non riuscirò a portare a termine il rapporto. Detto questo continuerai a fare quello che viene spontaneamente senza alcuna forzatura. Concentrati sopratutto sul dare delle belle sensazioni alla tua ragazza”.

 

      Dopo le primcomprensibili esitazioni avvenne qualcosa che io stesso non mi aspettavo in prima seduta: il giovane paziente tirò letteralmente un profondo respiro di sollievo. “Non avevo mai pensato di poter confessare il mio 'terribile segreto' in modo così elegante. Sento che finalmente posso tirar fuori questo veleno che ho sempre tenuto dentro”. “E non solo – risposi – dicendo così valorizzi la tua ragazza che si sentirà particolarmente apprezzata. Ma ricorda, è un esperimento da ripetere ogni volta che ti troverai con lei. Alla prossima seduta, valutati gli effetti, aggiusteremo il tiro”.

 

      In seconda seduta, dieci giorni dopo, giovanni era a metà tra l'entusiasta ed il perplesso. “Il problema non si è mai presentato. Mai, nemmeno una volta”. “Cosa succedeva dopo che confessavi il tuo 'terribile segreto' - chiesi?”. “Niente di grave. Mi tranquillizzavo perché sapevo che non sarei stato una delusione per la mia ragazza, visto che ormai era a conoscenza di tutto. Lei invece si mostrava molto comprensiva e disponibile con me... e alla fine tutto andava bene”. Giovanni disse anche che aveva fatto la sua 'confessione' soltanto due volte. Negli episodi successivi si era sentito tranquillo, avvertiva che tutto andava bene durante i preliminari, quindi aveva preferito evitare di dire una cosa che poi non sarebbe accaduta.

 

       Mi complimentai con lui perché finalmente era riuscito a liberarsi del suo segreto: una volta svelato aveva cessato di essere così ingombrante ed aveva smesso di produrre effetti così devastanti. Ma il giovane era anche stato molto bravo nel lasciarsi andare a quello che veniva. Scaricarsi dal segreto lo aveva rasserenato ed aveva smesso di ascoltare il proprio corpo, si concentrava soltanto sulla sua ragazza.

 

      Potei allora spiegare che l'indicazione data non era in realtà un esperimento, ma una vera e propria prescrizione terapeutica, posta in questa forma in modo da essere eseguita senza resistenza. Le prossime volte, avrebbe lasciato andare le cose così come venivano, senza alcuna forzatura. Se si fosse sentito in 'pericolo' avrebbe prontamente effettuato la propria 'confessione'. Ci congedammo a dieci giorni successivi.

 

      Il terzo incontro fu ancora più scorrevole, giovanni era felice per i risultati raggiunti, ancora non riusciva a credere pienamente a quello che stava accadendo. “Non si tratta di una magia – risposi – abbiamo trovato la giusta leva al cambiamento, che ha smontato velocemente le tue vecchie tentate soluzioni: quella del tenerti dentro il 'segreto' e quella del cercare di provocarti volontariamente l'erezione. Ricordati che, anche con le prossime partner, puoi sempre ricorrere a questo stratagemma”. “Spero di non averne bisogno, anche perché con la mia attuale ragazza mi trovo veramente bene”. “Buon per te!” - risposi sorridendo.


    La sessualità è una delle componenti umane più naturali. Tutti gli esseri viventi nascono grazie ad essa. Al giorno di oggi, purtroppo, stiamo assistendo ad un sorprendente paradosso: pur essendoci una generale disinibizione sessuale, si assiste ad un aumento di problematiche legate al sesso. Più gli esperti, le riviste, internet, le trasmissioni televisive di turno propinano nuove pratiche sessuali, nuove posizioni o trasgressioni (spesso anche perversioni), più si corre il rischio che quello che dovrebbe essere lasciato alla libera e creativa giocosità sessuale umana, venga sostituito da un freddo e meccanico tecnicismo. L'eccesso di controllo porta alla paralisi, questo vale per molte forme di patologie psichiche. Nel caso della sessualità ciò è ancora più pragmatico, perché essa non dovrebbe avere a che fare con la fredda volontarietà, ma con la calda coinvolgente spontaneità.

 

 

 

DI CHE COLORE COMPRO IL MAGLIONE?

un caso di dubbio patologico 

 

       Rita è una donna di circa 40 anni, si presenta in seduta confusa, sente che qualcosa non va nella sua vita; lamenta stress e continua ansia negli impegni quotidiani. Lavora al supermercato, posizione che occupa da qualche settimana, ma che svolge con disagio. E’ separata dal marito ed ha una figlia di 12 anni. Riferisce di avere una madre fin troppo presente ed asfissiante.

 

         Lo stress e l’ansia sono le manifestazioni di un disagio, che a sua volta finiscono con l’alimentarlo. Ma non esiste una soluzione unica per tutti, bisogna quindi chiarire la situazione e valutare le tentate soluzioni che la persona mette in atto.

 

         Facendo l’indagine del problema, attraverso il dialogo strategico, emerse con evidenza un particolare: la donna era totalmente incapace di prendere qualunque decisione nella sua vita e di metterla in pratica, fosse anche la più banale, come quella di scegliere un vestito da indossare.

         Come faceva allora a cavarsela? Semplice, chiedeva costantemente il consiglio e l’aiuto del partner, degli amici o dei genitori. Per qualunque cosa faceva una telefonata chiedendo come affrontarla. Aveva totalmente delegato la sua vita agli altri.

 

       Questo “giochetto” all’inizio funziona: la persona si sente rassicurata e compresa nei propri timori. Purtroppo, come spesso avviene nello strutturarsi di una patologia invalidante, il meccanismo finisce con il rovesciarsi contro. Le rassicurazioni e i consigli non bastano più come prima, ma la persona, in preda a forte ansia e angoscia, tenta di calmarsi cercando ancora di più aiuto negli altri; come un serpente che mangia se stesso ingoiando la propria coda!

 

       Il risultato era che adesso Rita aveva dei dubbi così forti che nemmeno le indicazioni dei suoi cari potevano sciogliere. Era completamente bloccata.

 

         Le posi delle domande: “Quando chiedi aiuto stai bene o stai male?” – “Mi sento sicura e protetta” – rispose Rita – “Si, al momento ti senti sicura e protetta, ma successivamente i tuoi dubbi assassini si placano o tornano pesanti e forti come prima?” – “Beh, effettivamente i dubbi tornano”.

       La donna non aveva mai preso in considerazione il fatto che le sue continue richieste di aiuto potessero alimentare il suo problema, per lei erano la soluzione perfettamente calzante. Procedendo con la seduta si accorse con sgomento che in questo modo la situazione poteva solo peggiorare, ma si sentiva con le mani legate!

 

       Dissi che le avrei dato delle indicazioni dirette per lavorare sul suo problema. La prescrizione fu soltanto una: evitare di chiedere qualunque forma di rassicurazione e aiuto, smetterla di chiedere consigli e di parlare in continuazione dei propri problemi. La donna accettò di buon grado; aveva già emotivamente sentito in seduta che bisognava urgentemente bloccare il suo modo di affrontare il problema.

 

       Rita tornò in studio dopo due settimane. Riferì subito che evitare di chiedere aiuto era stato un compito di non facile attuazione, ma pensare che in quel modo avrebbe peggiorato la situazione l’aveva tenuta a bada dalla tentazione di farlo. Mi raccontò un'altra cosa: prima parlava per delle ore al telefono, lamentandosi in continuazione, ma dopo qualche giorno che non lo faceva aveva sentito che l’ansia verso le cose era diminuita. “Mi sono accorta che parlare in continuazione dei miei dubbi è come gettare benzina sul fuoco”, disse. Fui d’accordo con tale affermazione, in realtà era proprio quello di cui volevo facesse esperienza.

 

 

        Ma intanto, anche se l’ansia era diminuita, il problema rimaneva: come effettuare le proprie scelte? La paziente rimaneva ancora totalmente bloccata.

 

     Indagando sul meccanismo mentale della donna emerse l’elemento fondamentale: Rita rifletteva sulle cose ponendosi continue domande, cui dava delle possibili alternative di risposta. Ad esempio, se doveva comprare un maglione, cominciava a lambiccarsi il cervello su quale sarebbe stato il tessuto o il colore adatto, conduceva una guerra spietata verso se stessa, da cui però si ritirava puntualmente: nel dubbio di acquistare il vestito che non fosse il migliore non ne prendeva nessuno.

 

        Anche in questo caso utilizzai il dialogo strategico: “Quando rifletti sulle cose cercando di valutare ogni possibile soluzione riesci a trovarla o no?”- “Ci provo ma non ci riesco perché forse non valuto correttamente la situazione“ – “Ma secondo te è possibile avere a priori sempre una risposta certa e definitiva sulle cose?” – “Purtroppo no” – ammise – “Allora possiamo essere mentalmente certi che una scelta sarà efficace prima di effettuarla o soltanto dopo averla fatta?” – “Dopo averla fatta!” - esclamò. La donna si accorse che, anche in questo caso, tentare di valutare mentalmente la scelta perfetta era ciò che alimentava il problema bloccandola. Continuai dicendo: “Immagino che, quando devi prendere una decisione, ti trovi ogni volta davanti a due o tre alternative di risposta” – “Si – disse – ma mi blocco”.

 

         Diedi allora la prescrizione: “da qui alla prossima volta che ci vedremo, quando dovrai assumere una decisione, o la metti subito in pratica per come ti viene al momento, o, se decidi di rifletterci troppo, prendi una moneta e sorteggi la tua scelta, che metterai poi subito in pratica”. La donna rimase un po’ interdetta; era evidente che la storia della moneta la indispettiva. Dissi comunque che poteva fare in uno dei due modi prescritti, le due alternative andavano bene lo stesso.

 

        Dopo due settimane, alla terza seduta, Rita tornò visibilmente contenta. Disse subito che non se l’era sentita di affidare le sue scelte ad una moneta, e quindi al caso; aveva preferito fare subito per come le veniva spontaneamente. In questo modo aveva cominciato ad assumersi tante piccole responsabilità.

 

        Prendere decisioni e metterle in atto aveva aumentato la sua ansia? Per niente! Rita riferiva che era stato bello fare autonomamente le cose, e anche se a volte si era accorta di non aver fatto la scelta migliore, disse che ne avrebbe tenuto conto la volta successiva. Cominciava a imparare dall’esperienza!

 

Per risolvere il problema di Rita utilizzai soltanto questi due stratagemmi terapeutici.

 

         Continuai a incontrare la donna, attraverso sedute sempre più diluite nel tempo, per altre sette volte, aiutandola a gestire la madre e la figlia preadolescente, ma soprattutto a consolidare la nuova abitudine di assumere e mettere in atto le proprie decisioni.

 

        In ultima seduta, pochi mesi dopo l’inizio della psicoterapia, congedai la nuova Rita, ormai pienamente autonoma, citando un aforisma di Seneca: non è perché le cose sono difficili che non osiamo, ma è perché non osiamo che sono difficili.

 

 

 

I SERPENTI NELLA PANCIA

un caso di blocco scolastico

 

Anna è una mamma che arrivando in terapia mi espone immediatamente il problema del figlio: la paura nei confronti della maestra Pina ed il suo scarso rendimento scolastico nella materia inerente. Il bambino, Mario, va in terza elementare.

 

La donna mi narra la storia del suo rapporto con l’insegnante, incrinatosi fin dalla prima elementare per un battibecco personale. Con il passare del tempo le cose peggiorarono. La maestra Pina cominciò a trattare il bambino diversamente dagli altri; gli dava del somaro davanti a tutta la classe. Mario, sempre più intimorito, diventò insicuro in sua presenza: balbettava, tremava, svolgeva le interrogazioni con grande incertezza. La maestra, secondo quanto riferito da Anna, era convinta di avere a che fare con un bambino poco dotato in intelligenza e, di fronte al suo balbettare gli diceva stizzita: “guarda che non ti mangio mica”.

 

Anna, cercando di correre ai ripari, aveva intrattenuto tanti colloqui con l’insegnante, provando a convincerla sulle reali capacità del bambino. La sua strategia principale era stata quella di cercare di persuadere la maestra che il figlio fosse intelligente e dotato: la sua insicurezza era, secondo lei, data solo dalla preoccupazione per quella materia e dal suo modo di trattarlo. La maestra Pina dal canto suo rivolgeva spesso delle espressioni insinuanti ed irritanti, anche nei confronti diretti di Anna.

 

La situazione al momento del nostro primo incontro era di completo blocco: il figlio, al solo pensiero di studiare quella materia, si metteva a piangere e non riusciva a fare niente. La madre passava i pomeriggi nel tentativo di rassicurarlo e denigrava costantemente l’operato della maestra in sua presenza.

 

            Utilizzando il dialogo strategico la donna si rese conto che la strategia del cercare di convincere la maestra circa l’intelligenza di Mario, purtroppo, non aveva dato i risultati sperati. Dissi che questa situazione richiamava la storia mitologica di Sisifo, che, trascinando un masso su per la montagna, appena arrivava in cima esso scivolava alla base e Sisifo si ritrovava a dover svolgere il suo pesante lavoro da capo, senza alcun risultato. Preparai quindi la donna a delle indicazioni da eseguire scrupolosamente.

 

Dissi che la maestra era ormai convinta di avere a che fare con un bambino poco dotato e, trattandolo in modo svalutativo, non faceva che aumentare in lui l’insicurezza e la paura: un bambino balbettante e incerto non poteva che essere un somaro, secondo il suo punto di vista. Diedi allora l’indicazione:

           “Domani quando vai a prendere tuo figlio a scuola, proprio nel momento dell’uscita, quando c’è un po’ di confusione intorno, fermi la maestra e, fingendo stupore, le dici: Sai! Ieri ho capito tante cose! Mio figlio mi ha detto che è innamorato di te e che quando gli parli si sente tutto in subbuglio... Soprattutto quando gli dici: - guarda che non ti mangio mica… - mi ha detto che si sente come… come se avesse dei serpenti nella pancia. Scusa, scusa! Adesso ho capito tante cose!"

             Detto questo te ne vai senza lasciare ulteriori spiegazioni.

 

Lo sguardo della donna rimase attonito e incredulo. Ripetei l’indicazione diverse volte concludendo: “finora la maestra ha pensato di rivolgersi ad un bambino poco intelligente e svogliato, vediamo come si comporterà davanti ad un bambino innamorato”. Dopo le prime, comprensibili esitazioni, vidi accordo nella donna, che, un po’ divertita per il compito che le aspettava, disse: “vediamo come andranno le cose”.

 

La seconda prescrizione che diedi era di interrompere le rassicurazioni nei confronti del figlio durante lo studio di quella materia. Il bambino avrebbe fatto quello che poteva e basta. Inoltre la madre avrebbe evitato di fare dei commenti di qualunque tipo sul comportamento della maestra in presenza del figlio. Congedai allora la mamma, dandoci appuntamento a due settimane dopo.

 

Al successivo incontro Anna mi disse per prima cosa che era stato molto divertente per lei dare la “notizia” alla maestra. Era rimasta talmente stupita e sconcertata da rimanere attonita, balbettando qualche spiegazione. Ma Anna era stata molto brava ad andarsene immediatamente ripetendo: “scusa, scusa, ho capito molte cose…”. Buona parte della breve seduta fu impiegata dalla paziente nel raccontare divertita questa esperienza. La mamma riferì anche che improvvisamente il figlio riusciva a studiare la materia, non aveva più tanta paura e si era comunque sbloccato dall’impasse.

 

Mi congratulai con lei per il buon lavoro svolto e indicai di lasciare andare le cose in questo modo poiché, una volta che il bambino aveva ormai cominciato a studiare, avremmo osservato i risultati per poi, eventualmente, aggiustare il tiro. L’appuntamento successivo avvenne due settimane dopo.

 

Alla terza seduta la madre, estremamente contenta, esordì dicendo che il bambino aveva preso nove in quella materia e che le cose andavano benissimo. Studiava tranquillamente tutto il pomeriggio senza lamentarsi e soprattutto riferiva che la maestra non era stata più “cattiva” nei suoi riguardi. Anna si sentiva molto sollevata per tutto ciò e mi riferì di sentirsi lei stessa molto meglio, poiché, non si sa se per lo stress riguardo i problemi del figlio, era stata molto ansiosa negli ultimi mesi e le si era bloccato il ciclo mestruale. Adesso stava bene.

 

Questo è un chiaro esempio di terapia strategica indiretta. Non ho mai incontrato il piccolo studente ed Anna non gli ha nemmeno riferito di essere stato da uno psicoterapeuta per il suo problema scolastico. 

 

Abbiamo fatto crollare la rigida credenza della maestra, come un edificio fatto collassare su se stesso innescando delle microcariche esplosive nel punto giusto delle sue dure fondamenta: Mario non è un bambino svogliato, ma un bambino innamorato. E’ stata questa la rivelazione che ha sconvolto l’insegnante. Il balbettare ed essere insicuro del piccolo allievo era dovuto all’amore che provava per lei, anzi, se lei stessa gli avesse parlato stizzita dicendo: “non ti mangio mica”, l’amore sarebbe addirittura aumentato. Ciò ha creato immediatamente avversione riguardo il suo vecchio modo di trattare il bambino, cambiando nettamente la sua relazione con esso. Un vero e proprio cambiamento immediato da parte della maestra.

 

In tale contesto, radicalmente mutato, Mario si è sentito rassicurato ed ha potuto realmente esprimere le sue naturali risorse, raggiungendo e mantenendo nel tempo splendidi risultati.

 

Ho continuato a incontrare Anna, perché mi ha in seguito palesato alcune sue problematiche personali che ha voluto affrontare con me, ma di tanto in tanto mi sono informato sul rendimento del figlio, ricevendo delle belle risposte entusiaste.

 

 

A conclusione di questo caso clinico riporto un già citato aforisma di Guglielmo da Occam, che ben si presta a esprimere lo stratagemma di questa terapia: “Invano ciò che può essere fatto con poco viene fatto con molto”.

Davide Norrito - Psicologo e Psicoterapeuta - ricevo a Trapani

Iscritto all'Ordine degli Psicologi della regione Sicilia al n° 4735