GLI ATTACCHI DI PANICO: COME FUNZIONANO E COME RISOLVERLI

 

 

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GLI INTERMINABILI MOMENTI

 

CASO CLINICO TRATTATO

 

           Carlo (il nome del paziente è inventato per il rispetto della privacy) viveva continui attacchi di panico. Lo incontrai la prima volta con al seguito i genitori e la sua ragazza. Feci accomodare tutti nel mio studio, per fare il primo punto della situazione.

 

     I genitori erano sfiduciati, avevano apparentemente tentato di tutto per cercare di calmare il figlio. Ogni forma di rassicurazione, di accompagnamento, di vicinanza, si era rivelata inefficace. Nonostante le loro continue attenzioni, il ragazzo si mostrava come una corda di violino, sempre in tensione, nel timore che potesse presentarsi un attacco di panico paralizzante. Anche la partner riferiva di aver provato ripetutamente a tranquillizzarlo la maggior parte del loro stare insieme era ormai impiegata nel parlare dei suoi sintomi, di quello che Carlo sentiva o non sentiva.

 

          Dal resoconto del paziente venne fuori che tutto ebbe inizio quando una sera, in compagnia di alcuni amici, manifestò una totale perdita di controllo di se stesso. Si sentiva come estraniato, incapace di reagire, bloccato e tremante, si era ritrovato a terra colto da questi terribili sintomi e con il terrore di poter morire. L'attacco di panico durò un bel po', e anche tornato a casa continuava a sentirsi stremato e privo di forze.

 

          Da quel giorno, la paura di poter stare male era diventata il principale pensiero di Carlo. Era in continuo ascolto del proprio corpo, alla ricerca di qualunque possibile sensazione negativa da dover scongiurare. Aveva organizzato la propria vita in modo da sentirsi sempre "protetto". Aveva smesso di guidare, facendosi accompagnare dai genitori o dalla ragazza. Aveva ridotto le uscite serali e, se avvertiva qualche sintomo di ansia, preferiva abbandonare il luogo in cui si trovava per rinchiudersi in casa. Ma neanche questa si era rivelata il luogo sicuro: il panico poteva coglierlo anche lì. Cercava continuamente di auto-rassicurarsi, dicendo a se stesso che stava bene, che ce la poteva fare, che tutto quanto era solo un'invenzione della sua mente.

 

           La situazione si manifestava quindi in un blocco completo nella vita del paziente: nel tentativo disperato di far fronte al panico esso era aumentato ancora di più.

 

Ma le dinamiche di persistenza di un problema si fondano proprio su ciò

che gli esseri umani cercano di fare per risolverlo.

 

           E' evidente che ci sia stato un episodio scatenante di perdita di controllo, ma l'attuale struttura di funzionamento degli attacchi di panico si fondava proprio su ciò che il paziente e tutto il sistema familiare, sia pur con le migliori intenzioni, stavano cercando di fare.

 

           La famiglia ammise che le strategie fino ad allora adottate si erano rivelate inefficaci e che c'era bisogno di cambiare qualcosa per ottenere nuovi effetti. Avrei allora dato delle indicazioni terapeutiche da seguire scrupolosamente, anche se sarebbero sembrate apparentemente strane o illogiche.

 

         La prima cosa che tutti quanti dovevano mettere in atto era una vera e propria “congiura del silenzio”. Bisognava evitare di parlare dei problemi di Carlo perché, come nella maggior parte delle patologie psicologiche, parlarne è all'inizio apparentemente rassicurante, ma in realtà è come mettere del fertilizzante su una pianta rampicante: questa cresce a dismisura fino ad avvolgerci completamente, soffocandoci. Furono ben lieti di accogliere tale indicazione. In fondo si erano scocciati di parlare in continuazione dei sintomi del ragazzo, avendo in più la frustrazione di non ottenere alcun risultato. Congedai allora la famiglia rimanendo da solo con il paziente.

 

          Dissi che dovevamo smontare tutte le condizioni che finivano con il peggiorare il suo problema e che quindi il prossimo passo da fare sarebbe stato una sorta di compito mentale: “So che chiederai aiuto agli altri, soprattutto nelle situazioni in cui temi possa venirti un attacco di panico. Evidentemente in questo momento non sei in grado di affrontare le situazioni da solo. Chiedi dunque tutto l'aiuto che vuoi, però quando lo fai voglio che dici tra te e te: adesso mi faccio aiutare, anche se so che in questo modo peggioro il mio problema, rendendomi incapace di fare da solo e alimentando le mie paure”.

 

         Questa indicazione fece rimanere il giovane interdetto. Aveva percepito in seduta che chiedere aiuto significava peggiorare il proprio problema. Rassegnarsi a chiedere supporto agli altri, dovendosi inoltre imporre mentalmente di ripetersi che così le cose sarebbero peggiorate, lo faceva rimanere perplesso. Accettò comunque il compito prescritto.

 

          Infine scrissi un foglio a penna con dei dati da compilare. Il paziente doveva, da quel momento in poi, portare sempre con sé un taccuino e, tutte le volte in cui fosse arrivato un episodio di panico, lo avrebbe prontamente preso, compilando i dati richiesti nel mio schema. Dissi che in questo modo avremmo avuto molte più informazioni sul funzionamento dei suoi attacchi, per poi meglio affrontarli. Accettò questa prescrizione di buon grado. Fissai quindi il successivo appuntamento a due settimane di distanza.

 

          In seconda seduta mi intrattenni con i familiari per poco tempo. Riferirono che Carlo era stato un po' meno preso dall'ossessione del proprio problema, anche se la sua ansia era ancora ad alti livelli. Comunque erano stati tutti bravi nell'evitare di parlare delle sue paure, e questo li aveva auto rasserenati. Avevano notato, tra l'altro, che il figlio non aveva chiesto più aiuto con la stessa frequenza di prima. Mi complimentai con loro per l'indicazione seguita alla lettera e dissi di continuare a seguire questa strada.

 

          Rimasti noi due soli il paziente mi disse subito che non se l'era sentita di continuare a chiedere sostegno agli altri come prima. Era stata una tortura frustrante dover ripetere a se stesso che chiedendo aiuto avrebbe peggiorato la situazione, quindi aveva preferito cominciare ad affrontare tante piccole cose da solo. In un caso aveva addirittura guidato lui la macchina, al ritorno da una serata in compagnia, perché la sua ragazza non si sentiva tanto bene. Pur essendosi messo in questa situazione “pericolosa” non era però successo niente di preoccupante. Senza dare apparentemente peso alla cosa dissi allora che, visto che era stato così bravo, poteva ormai evitare di chiedere sistematicamente aiuto; affrontando in prima persona le situazioni. In realtà, senza averlo dichiarato prima, era proprio questo l'effetto terapeutico che mi aspettavo dall'indicazione, ma tutto appariva agli occhi del paziente spontaneo e naturale.

 

          E per quanto riguarda i resoconti degli attacchi di panico? Come era andata la compilazione del “diario di bordo” dei suoi episodi ansiosi? Il giovane mi consegnò un bel malloppo di fogli, opportunamente compilati, in cui descriveva minuziosamente, per come avevo richiesto nello schema, i suoi attacchi di panico. “Cosa succedeva durante e dopo che scrivevi nello schema? - chiesi allora – il panico rimaneva invariato o diminuiva?”. Carlo ci pensò per qualche secondo ed ammise che in effetti i suoi attacchi di panico erano stati più brevi. Scrivere nello schema lo aveva distratto dalle continue attenzioni che di solito prestava al proprio corpo e quindi questo lo aveva naturalmente tranquillizzato. Commentai allora che il compito in realtà, non era soltanto un modo per conoscere meglio i suoi attacchi di panico, ma consisteva soprattutto nel distrarre la propria mente dalla fissazione sui propri sintomi. Scrivendoli essi potevano naturalmente fluire e trovare sfogo, invece che accumularsi nel tentativo paradossale di fermarli coscientemente. L'indicazione fu allora di continuare a mantenere il diario di bordo del panico.

 

           Diedi allora un'ulteriore prescrizione. Fino al prossimincontro, giornalmente, Carlo si sarebbe seduto comodo su un divano, caricando una sveglia a suonare mezz'ora più tardi, nessuno avrebbe dovuto disturbarlo e in quello spazio di tempo si sarebbe sforzato il più possibile, volontariamente e coscientemente, di pensare a tutte le sue peggiori fantasie rispetto alle sue angosce: “Immagina proprio di trovarti in una situazione pericolosa, di avere un attacco, il cuore che batte a mille, cominci a sudare, dimenarti... e tutto quello che ti viene da fare nella mezz'ora fallo. Se ti viene da stringere forte i pugni, gridare, piangere: lasciati andare. L'importante è che, deliberatamente, sforzi di evocare i peggiori pensieri e le peggiori sensazioni possibili. Appena suonla sveglia, stop, è finito tutto, ti alzi, vai a sciacquarti il viso, e riprendi le tue occupazioni”. Anche in questo caso il ragazzo reagì con stupore, ma era rimasto come “catturato” dalla prescrizione e si congedò da me quasi frastornato al pensiero di dover stare volontariamente male.

 

          In terza seduta incontrai il paziente da solo, i genitori non c'erano, era venuto con la ragazza, ma aveva guidato lui la macchina. Per prima cosa, diligentemente, mi aveva consegnato i fogli del diario di bordo. Le carte erano evidentemente diminuite e lui stesso riferiva che gli episodi di panico si erano affievoliti in frequenza ed in intensità. Commentai positivamente questa cosa e dissi di continuare con la compilazione, una volta che ormai ne conosceva il positivo effetto. E per quanto riguardava la mezz'ora di peggiore fantasia? Come era andata? Il paziente si mostrò perplesso, disse che non era andatbene. “In che senso?” – chiesi. “Non sono riuscito a stare male come mi aveva chiesto. Le prime volte ci riuscivo, sentivo il cuore battere forte, mi irrigidivo. Ma con il passare del tempo ho provato a pensare a tutte le cose più brutte, ho cercato di stare male, ma proprio non ci sono riuscito. A volte mi sono pure addormentato”.

 

           Il paziente aveva ottenuto proprio quello che avevo previsto, ma ancora non aveva realizzato che gli effetti erano stati positivi: gli sembrava di aver fatto male il compito. Spiegai allora: “Fino ad ora i tuoi attacchi di panico sono stati come un terribile fantasma che più tu scappavi più lui ti inseguiva, facendoti terrore e paura. Adesso, attraverso questa tecnica, abbiamo ribaltato la situazione. Non è più il fantasma ad inseguire te, ma sei tu ad andare incontro a lui, ed ogni volta, sempre di più, ti accorgi che è... inconsistente, come tutti i fantasmi del resto”. Il paziente rimase molto meravigliato, non aveva ancora dato pieno senso a quello che gli era successo. Prima di allora aveva sempre provato a non pensare alle sue paure o ad auto-rassicurarsi, perdendo maggiormente il controllo. Adesso era lui a guardare la sua paura in faccia e questa era svanita. “Quindi anche per questo motivo sono diminuiti gli episodi di panico?” - “Certamente” - risposi.

 

           Adesso bisognava rendere la tecnica della peggiore fantasia ancora più funzionale a livello terapeutico, utilizzandola durante la giornata, fino a farla diventare il principale strumento per fronteggiare le proprie ansie.

 

       Per motivi di sintesi evito di stilare un resoconto particolareggiato dei successivi incontri, che si sono incentrati soprattutto nell'evolvere questa potente tecnica. Potendo utilizzare le sue peggiori fantasie in modo anticipatorio, prima di dover affrontare una situazione temuta, o al momento, cioè nello stesso istante in cui si manifestava la paura, Carlo è riuscito a limitare via via, fino ad annullare completamente, le sue risposte ansiose e le relative escalation in veri e propri attacchi di panico. Tutto ciò in otto sedute, le ultime delle quali a distanza di un mese, due mesi tre mesi.

 

        Quando ci congedammo feci un'ultima, paradossale domanda a Carlo: “E se adesso tu volessi rovinare tutto, cosa dovresti fare?”. “Tornare a fare quello che facevo prima" – rispose. "Cercare di non pensare alle mie paure o volerle controllare a tutti i costi. Oppure rimettermi a chiedere aiuto per ogni cosa”. “Bravo", – risposi – "ogni tanto pensa a come poter rovinare tutto, sarà un ottimo modo per mantenerti lontano dalle tue vecchie tentate soluzioni che, sia pur ragionevoli, portate all'esasperazione, ti avevano condotto ad essere un 'professionista' del panico".

 

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“L'aspettar del male è il mal peggiore

F. Pessoa

 

COSA E’ L’ATTACCO DI PANICO

 

Il panico è una reazione psicofisiologica di paura estrema che comporta il terrore di morire o di perdere il controllo di se stessi. Può essere innescato da fattori esterni concreti o anche dai propri pensieri.

 

     L’Organizzazione mondiale della sanità ha stabilito che circa il 30% della popolazione mondiale ha sofferto o soffre di attacchi di panico; esso è quindi la forma più importante e frequente di psicopatologia.

 

          Chi vive un attacco di panico attraversa un'inesorabile escalation di sensazioni che portano ad una totale perdita di controllo. Può anche avere la paura costante che possa presentarsi un episodio.

 

 

COSA INNESCA QUESTA ESCALATION

 

La logica di funzionamento del problema si basa su un paradosso:

 

Di fronte alla paura puoi cercare di controllarla volontariamente; ma ciò ti conduce spesso ad una maggiore ansia poiché, combattere le proprie sensazioni le amplifica ancora di più.

 

 

COSA PEGGIORA LA SITUAZIONE

 

Se hai vissuto o vivi il panico puoi mettere in atto una serie di strategie di contenimento che, sul momento possono rassicurarti, ma a lungo andare peggiorano il tuo problema: 

 

 Se eviti le situazioni che ritieni pericolose, all'inizio ti senti tranquillizzato, ma col tempo aumenti il tuo senso di paura nell'affrontare le normali sfide quotidiane. Sfuggire costantemente dal campo di battaglia ti fa sentire sempre più inadatto a combattere.

 

Se chiedi aiuto agli altri per quelle che sono delle normali incombenze, stai amplificando il problema. Farsi aiutare dagli altri crea nel tempo sfiducia nelle proprie capacità. E' un po' come il sostenersi troppo a lungo su una stampella: se esageri finisci con l'atrofizzare proprio la gamba che intendi proteggere. 

 

Se parli spesso del problema stai cavalcando pericolosamente un falso luogo comune. Parlarne sul momento può rassicurarti, ma nel tempo alimenti la percezione del tuo panico, proprio perché gli dai continuamente voce. Parlarne frequentemente è come mettere del fertilizzante speciale sulla pianta rampicante del problema: essa cresce a dismisura avvolgendoti e soffocandoti sempre di più.

 

Se cerchi di controllarti, di calmarti volontariamente, di fare dei respiri profondi, di distrarti, di non pensare alla tua ansia, purtroppo spesso non ottieni l'effetto desiderato, anzi, rischi di genera un'escalation della paura, poiché il tentativo di combatterla aumenta la sensazione della sua pericolosità.

 

COME INTERVENIRE

 

Se ti rendi conto di essere incapace di gestire l'ansia ed il panico, che vivi con la paura costante di perdere il controllo o senti la necessità di avere qualcuno vicino che ti soccorra è indicato un aiuto specialistico appropriato.

 

Un adeguato intervento psicologico utilizza tecniche mirate, che ti portano a rompere il circolo vizioso dell'ansia e del panico, utilizzando al meglio le risorse per tornare a vivere una vita normale.

 

La terapia breve strategica risolve totalmente il disturbo di attacchi di panico in oltre il 90% dei casi (Fonte: Centro di Terapia Strategica Breve di Arezzo e Studi Affiliati).

 

 

"Non aspettare il momento opportuno: crealo"

John Weakland

Davide Norrito - Psicologo e Psicoterapeuta - ricevo a Trapani

Iscritto all'Ordine degli Psicologi della regione Sicilia al n° 4735